Il diavolo e la rossumata
Pubblicato il:
1 luglio 2013
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“Un racconto sensoriale, un romanzo culinario, una narrazione di ricordi legati all’infanzia per ritrovare la piccola Bice”.
Così scriveva nel settembre 2012 Sarina Biraghi per introdurre la sua intervista a Sveva Casati Modignani, in occasione dell’uscita di un libro “diverso”. Si trattava de Il diavolo e la rossumata (ora disponibile nell’edizione economica Pickwick), un romanzo che sconvolgeva i canoni della scrittrice milanese e disorientava, per poi affascinare e conquistare, le lettrici.
Perché, dopo trent’anni di romanzi costruiti intorno a protagoniste che erano pretesti per raccontare la forza e il coraggio (anche di amare) delle donne, Sveva Casati Modignani si è guardata indietro – e dentro (“non è stato indolore, ma mi ha fatto bene” ha detto) – e ha deciso di raccontare la propria infanzia, vissuta durante i tempi di duri di un Paese che faceva la fame.
Eppure Il diavolo e la rossumata è la storia di Sveva bambina che vive spensieratamente la fine della guerra a Trezzano sul Naviglio, nella cascina degli zii. Si ricompone, attraverso i ricordi, le ricette, la nostalgia, l’infanzia (e il suo bagaglio immaginifico) di Bice fatta di preghiere a San Biagio (per evitare l’operazione alle tonsille), di bombardamenti visti da lontano, di bicchieri di vino rossi trangugiati perché “faceva sangue”.
E poi la ricetta della “merenda consolatoria” per eccellenza, la rossumata che la nonna di Sveva preparava quando aveva la luna buona.
Non mancano, quindi, neanche in questo racconto autobiografico, le figure femminili intorno alle quali la famiglia si costruisce e si raccoglie, ma l’impressione è quella di vedere un vecchio film in bianco e nero, e di provare un’incredibile, struggente nostalgia.
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